ANTICHI MESTIERI

CALZOLAIO  (SCARPARU)



Il calzolaio realizzava scarpe; la parte più consistente del lavoro erano però le riparazioni. Questo perché farsi confezionare un paio di scarpe nuove costava molto di più che ripararle. Oggi non è più così. Le scarpe si trovano sempre più a buon prezzo, e la figura del ciabattino è pressoché scomparsa. Generalmente i contadini non indossavano scarpe d'estate, riservandole per l'inverno.
Si possedeva un solo paio di scarpe, dozzinali e resistenti, rinforzate nella suola e nei tacchi con i chiodini (simìci). Nelle famiglie - specialmente tra i figli che crescevano - con le scarpe avveniva una sorta di passaggio del testimone: il componente più grande le passava al più giovane. Quando i campagnoli dovevano recarsi in paese, facevano buona parte del tragitto scalzi, con le scarpe a penzoloni sulle spalle legate per i lacci, indossandole solo in prossimità del centro abitato. Era un metodo per limitarne al minimo l'usura. Altri tempi. La bottega del calzolaio era impregnata degli odori più strani: colla, pece, grasso cromatina; ed era un luogo d'incontro per scambiare quattro chiacchiere col calzolaio, che parlava senza mai distogliere lo sguardo dal suo lavoro




IL FABBRO - U FURGIARU

Il fabbro era un artigiano che godeva di molta considerazione nei diversi territori. Infatti, i paesi a vocazione agricola non potevano fare a meno di questo professionista lavoratore dei metalli. Con l'incudine, le pinze e le tenaglie, i martelli e le mazze, il fabbro modellava le barre di ferro incandescenti, che cedevano sotto i suoi colpi vigorosi, diventando zappe, vanghe, mannaie, accette, falci, picconi, roncole ferri di cavallo e brocche. Il fuoco doveva essere vivo e ininterrotto. Per aumentare il tiraggio sul carbone di legna, il fabbro utilizzava un mantice a forma di soffietto fatto di legno e cuoio. 
Il "furgiaro" era anche maniscalco ferrava cavalli e buoi. La procedura era abbastanza laboriosa. Dopo aver immobilizzato il cavallo, il maniscalco schiodava il ferro da sostituire; tranciava le punte dei chiodi uscenti estraendole da sotto con delle tenaglie. L'unghia veniva limata e rifinita con scalpello e coltello. Quindi, ne veniva valutata la grandezza e la forma. Poi si forgiava un ferro nuovo o, in alternativa, se era della misura giusta, se ne sceglieva uno fra quelli già preparati. Infine, veniva provato sotto l'unghia e si modificava affinché aderisse con precisione



IL CARBONAIO - U CARBUNARU

Figura mitica quella del carbonaio che restava in montagna per mesi interi, portandosi dietro solo il mulo carico. I carbonai tagliavano gli alberi e con le roncole facevano la pulizia dei rametti.
Ogni carbonaro lavorava la sua macchia, la tagliava in pezzi di un metro e la accatastava. Successivamente veniva trasportata con i muli nello spiazzo, un punto in cui venivano scavate le buche nelle quali sistemare la legna e appiccare il fuoco. La cotta della legna, scavata nel terreno, aveva forma conica. Una volta appiccato il fuoco, veniva coperta con del terriccio e ogni tanto vi si praticavano dei buchi per far uscire il fumo ed evitare che la legna incenerisse completamente. Anche di notte, a turno, i carbonari, sorvegliavano la cava per evitare ogni pericolo. I carbonari dormivano nel capanno di legno costruito sullo spiazzo.


IL SELLAIO - U SILLARU


Quello del sellaio è un antico mestiere ormai in disuso, che sopravvive solo grazie alla produzione di finimenti per cavalli da corsa. Quando era un mestiere diffuso, il sellaio preparava in modo artigianale e professionale finimenti per cavalli, ma sopratutto basti per asini e muli. I materiali usati erano il legno, il cuoio e la paglia.
Il pagamento avveniva sovente, da parte del contadino,in natura con uova, pollame e frutta, olio.




LA FILATRICE


Nei pomeriggi estivi e, soprattutto, nelle lunghe serate invernali, le nostre vecchie erano impegnate in uno dei compiti loro riservati. 

La filatura della lana di pecora. 

Un tempo, la filatura veniva praticata con la rocca e il fuso. La lana prima veniva cardata facendola passare e ripassare tra due assi di legno contrapposti, dai quali fuoriuscivano lunghi chiodi. Più tardi la filatura veniva fatta con apposite macchine a pedale, nelle quali il fuso era sostituito dalla spola.
La lana filata veniva poi raccolta in matasse, lavata in acqua calda, quindi usata per fare calze, maglioni, maglie, scialli ecc. Il lavoro durante l’inverno, veniva svolto nelle stalle, dove la gente era solita trascorrere la serata al caldo delle mucche.
Di seguito si riporta una nota filastrocca popolare sulla filatrice scansafatiche:



Luni, luniai
Marti e mercuri nun filai
Lu juovi perditti lu fusu
Lu vennari lu truvai
Lu Sabatu mi pettinai la testa ca a duminica era festa.
 

Traduzione:

Lunedi lo passai 
Martedi e mercoledi non ho filato
Giovedi ho perso il fuso
Venerdì lo ritrovai
Il sabato mi pettinai la testa poichè la domenica è di festa


L' ARROTINO



"Ammola fuorbici, curtelle, roncule "

Si sentiva la voce sempre più forte avvicinarsi al paese, la voce dell'arrotino che offriva il servizio di affilare le lame di coltelli, forbici e altri strumenti.
Installava il suo "macchinario"sulla piazza del paese e si accingeva, azionando la pedana, ad affilare, sulla mola, quanto i clienti gli avevano affidato.
Finito il lavoro, usando la ruota grande a mo' di carretta o addirittura caricando il tutto sulle spalle quando il terreno era accidentato, si allontanava per servire altre zone
 

IL BOTTAIO - GUTTARO


Il mestiere del bottaio è ormai scomparso.
Era una vera arte: le doghe di legno, accuratamente preparate, venivano curvate con il fuoco e veniva preparato il corpo della botte.Lateralmente, robusti cerchi in ferro, preparati dal fabbro, stringevano le assi delle doghe, e cosi la botte, assumeva la sua forma panciuta.
Infine si preparavano i coperchi "i sietti ", superiore ed inferiore e si incastrava "u pisciaturu ", il rubinetto che serviva a spillare il vino. Ora le botti sono tutte in acciaio o in vetro cemento, che sicuramente garantisce igienicità al prodotto ma, il sapore che il legno cedeva lentamente al vino, è sparito.


LO ZAMPOGNARO U' CIARAMEDDHARO

Quello dello zampognaro non era un vero e proprio mestiere. Era una missione. Per lungo tempo scomparsi ora stanno tornando grazie al rinnovato interesse per la cultura e le tradizioni popolari.

Gli zampognari si muovevano in coppia: uno suonava la zampogna, strumento simile ad una cornamusa, l'altro la ciaramella, strumento a fiato fatto di canne. Indossavano un giubbotto senza maniche di montone ed un cappello guarnito di nastri
Gli zampognari scendevano dai monti e dai paesini, verso le città, per rimanervi per la durata della novena (15-23 dicembre). La città offrivano loro la possibilità di guadagno ed esercitavano un fascino particolare in tutti i sensi. Molti pastori apprendevano, con impegno, a suonare la zampogna o la ciaramella, aspettando l'età per poter seguire il "rito" sulle orme paterne. Essi sentivano parlare tanto di quelle città, delle sue luci, delle donne, dei soldi guadagnati tanto da rivivere tutto, in sogno, per anni.
Finalmente veniva il loro turno. Con i cappelli a cono invellutati, le "zaricchie" ai piedi, il nero mantello, lo strumento sotto braccio, e, via, verso la "mecca" tanto sognata.
Giravano per le vie suonando, fermandosi qua e là e raccogliendo le offerte occasionali o stipulavano accordi con le famiglie che allestivano i presepi, per suonare davanti a quella "sacra raffigurazione" ogni sera, all'ora della novena. Poi, a divertirsi.
Quelle settimane modulate dai suoni dolci delle nenie natalizie, e tutto il resto diveniva, poi, oggetto di racconto per un anno. Ai cittadini non restava che una lunga attesa, per risentire quelle melodie, che fanno tanto Natale.
Nei paesi, invece, pastori e contadini scendevano dai monti, con le loro zampogne solo il 24 a sera. Andavano in giro per le case di amici e conoscenti a suonare davanti al presepe. Le padrone di casa offrivano vino e fritture, per cui è immaginabile quale fosse alla fine il loro stato di ebrezza.
















 IL LATTONIERE - U QUADARARU



"U quadararu" è uno dei tanti mestieri scomparsi.
A volte succedeva che una " quadara " si sfondava o si ammaccava in più punti sia per qualche caduta che per il troppo uso. " U quadararu " interveniva per rimetterla a nuovo. Se era rotta ci voleva una " pezza " che ricavava da una pentola vecchia o in disuso e che, con chiodini di rame, applicava dalla parte esterna. 
L'interno delle "quadare" e delle pentole in rame, veniva rimesso a nuovo stendendo dello stagno sulla superficie resa liscia, lucente ed uniforme, con una matassa di canapa che veniva strofinata fino a che il lavoro non era eseguito alla perfezione.
"U quadararu" aveva fama di essere abbastanza sfortunato perché, generalmente, tutte le volte che lui arrivava pioveva e il suo lavoro, svolto all'aperto, diventava più complicato. Era diventato un modo di dire " a furtuna du quadararu " per indicare una persona per nulla fortunata.
Il suo mestiere lo costringeva a essere sempre unto di nero e nero aveva anche il viso. Nel prezzo, contrattato prima, era sempre compreso un bicchiere di vino. 
"U quadararu" era un artista nel lavorare il rame delle casseruole, dei secchi e delle "quadare". 
Ora, con le pentole in acciaio inox, le padelle con i fondi in teflon, non si ha più bisogno della sua presenza


Le quadare

 IL CANTASTORIE
Il cantastorie, fin dai tempi più antichi, era colui che andava in giro a cantare e declamare le sue “storie” per paesi e città. Di solito si fermava in una piazza, all’angolo di una strada, in un mercato, dove c’era tanta gente di passaggio e lì incominciava a cantare, a suonare, a esibire i suoi fogli e i suoi cartelloni e tutti si radunavano ad ascoltare e a guardare. Intorno al cantastorie quindi si formava un gruppo di gente, e questo spazio costituiva il palcoscenico nel quale il cantastorie faceva il suo spettacolo. Le “storie” che cantava potevano essere tragiche, allegre, strampalate, e a seconda dei casi la gente si commuoveva o sorrideva ascoltando le vicende che il cantastorie sapeva evocare.
Lo spettacolo era semplice, popolare, fatto con spontaneità e con improvvisazione, la musica era popolare, il linguaggio semplice e spontaneo, adatto a suscitare emozioni e sentimenti. Cronista, saltimbanco, poeta, musicista, clown, il cantastorie era tutto questo e in più sapeva stabilire un contatto diretto col suo pubblico che conosceva molto bene.
Cantastorie

LA LAVANDAIA - A LAVANNARA


La lavandaia lavava i panni dei signori che potevano permettersi di noleggiare la "lavatrice umana" La lavandaia lavava i panni nel torrente con qualsiasi tempo e temperatura, inginocchiata nell'erba.Andava prima per famiglie a raccogliere i panni sporchi da lavare e poi si portava al torrente per iniziare la sua opera.Dopo aver finito di lavare, i panni venivano stesi sull'erba ad asciugare. I ferri del mestiere erano la cenere del camino "a liscivia" l'acqua del torrente e tanto "olio di gomito" per strofinare e sbattere sulle pietre del torrente i panni. Spesso era necessario far bollire la biancheria sporca ed a questo proposito venivano preparate le "quadare" dove venivano bolliti i capi più grandi e resistenti (lenzuola, tovaglie), in questo modo si otteneva la sterilizzazione del bucato e, sopratutto, l'eliminazione dei parassiti (acari, cimici, pulci) un tempo molto presenti ed infestanti le abitazioni.
Questo mestiere duro e faticoso, ora fortunatamente scomparso con l'avvento delle lavatrici, permetteva alle donne, sopratutto vedove o sole, di sbarcare il lunario, aumentando il magro reddito delle campagne. 
Ma la lavandaia, almeno nell'immaginario collettivo, era una persona felice che cantava, sola o in coro con le compagne, allegre filastrocche e canzoni mentre attendeva al suo lavoro.
Lavannara


IL BANDITORE - U  BANNITURU

La diffusa scolarizzazione con conseguente scomparsa dell'anafalbetismo e, sopratutto, l'avvento dei mezzi di comunicazione moderna, ha causato la scomparsa, ormai da decenni, di una delle figure più caratteristiche e popolari della tradizione. Accompagnato dal cupo battito della grancassa o dal rullare del tamburo od anche dallo squillo di una improbabile trombetta, il banditore annunciava al paese ed alla città le novità importanti. L'annuncio poteva riguardare sia una comunicazione dell'autorità, sindaco o podestà che fosse, sia una comunicazione commerciale.
Poteva udirsi una frase del genere: "Sintiti, sintiti, sintiti. Lu sinnacu manna a dire che dumani ammanchera l'acqua. Fimmini, inchitivi li bagnarole e li quadare ca non si sa quando ritorna", oppure: "Ara chiazza su arrivati l'alici frischi. Facite nfretta ca non ci nni su assai. Si vuluti l'alici frischi"
Nel primo caso il compenso al banditorre era pagato dal Comune nel secondo dal commerciante che aveva commissionato l'annuncio.

Bannituru

IL CAPELLARO - U CAPILLARU

U’ Capillàru passa, cagnàtivi ì capilli !- Tra gli stretti vicoli della nostra Morano, s’udiva gridare a squarciagola.Il vicinato fino ad allora tranquillo,quasi deserto,s’animava d’incanto e le comari, alla spicciolata,uscivano dalle loro case per fare capannello attorno all’ambulante.Ognuna di esse,portava dentro uno scatolino,batuffoli di capelli,caduti sul campo delle severe “strigliate” mattutine.Per noi ragazzi,le scaramucce verbali urlate in dialetti quasi cugini,rappresentavano il massimo della goduria,per i litigi che ne scaturivano e per le allusioni piccanti e molto colorite. C’era infatti sempre qualche donna che pretendeva scambi impossibili , ed era sempre gelosa del trattamento riservato alle altre. A questo punto solitamente, scoppiava qualche litigio tra le donne, che se ne cantavano di tutti i colori. Imprecando, " ù capillaru " diventato ormai nervosissimo,con un gesto brusco, toglieva i capelli dalle mani delle sghignazzanti comari, e ripromettendosi di non passare più da quel vicinato, dava loro qualche oggetto corrispondente (sempre casalinghi) alla quantità di capelli ricevuta. Terminati gli scambi “importanti”, i ragazzini fino ad allora spettatori, chiedevano alle loro mamme qualche palloncino, ed erano pianti e arrivavano anche le botte come grandine a cielo sereno, per calmare i ragazzini in lacrime. U’ capillaru invitava allora le mamme dei piangenti ad aggiungere qualche dieci lire oppure un altro po’ di capelli, per accontentare i piccoli, e se queste rifiutavano, a volte il palloncino lo regalava lui. Calato il sipario sulle trattative,l’uomo sempre abbastanza trasandato, si caricava il “cestone” a tracolla, e i ragazzi e le donne l’aiutavano a scomparire sotto la mercanzia (si vedeva solo la testa); mentre s’allontanava tra i tortuosi vicoli, il suo grido come un lamento, ancora risuonava per le “vaneddre”di Morano: " ù capillaru passa cagnativi ì capìlli! " Poi tutto ricominciava uguale in un altro vicinato.

Edgar Degas Donna che si pettina 1889 Museo dell'Ermitage San Pietroburgo
ARTIGIANATO IN CALABRIA